anni fa nella mia palestra ha fatto uno stage Marvin Vettori che ci ha fatto fare una seduta di allenamento (divisa tra esercizi la mattina e tecnica e sparring il pomeriggio) seguendo la sua preparazione per venator..non so come ho fatto a sopravvivere..
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..se ti alleni seguendo Sakara,tanto di cappello
tanta roba, che disciplina praticavi?
Di Sakara prendo gli esercizi e le idee (es.
zaino con bottiglie d'acqua per fare squat) che mi piacciono, sono vecchio!!! Ahahahah
Ti giro uno scritto di KONG (seguo sui social)….mi piace come scrive
Sono passati molti anni ormai da quando entrai per la prima volta in una palestra di pugilato.
Come credo succeda a tutti, fu il ring a catturare a primo impatto la mia attenzione.
Quello strano complesso di cordami ed assi di legno al centro della sala mi sembrava il punto di incontro fatidico tra un palcoscenico ed un altare sacro.
Era vuoto, gli atleti si stavano allenando nel resto della sala.
Da una parte c'era il gruppo dei cosiddetti amatori che si dilettava in una sorta di circuito ginnico che sospetto con la nobile arte avesse ben poco a che fare.
Erano tutti vestiti come per esordire al Madison Square Garden, con abbigliamento tecnico di marca, nuovissimo e griffatissimo, il che fa ancora più sorridere se pensate che non c'erano neppure i canali social su cui ostentarle certe cose.
Non c'erano in realtà neppure i cellulari che facevano foto e video.
Sembravano a tutti gli effetti pugili, ma non lo erano che nella loro fervida immaginazione.
Poi c'erano gli agonisti, un gruppetto molto meno folto, in disparte, facce tese, abbigliamento minimale.
Sacco, corda, corda, sacco, e tanto tanto lavoro da soli di fronte allo specchio, a osservare la propria immagine riflessa, correggendo i movimenti, ripetendoli una, due, tre, cento volte.
Il tutto scandito dal ritmo delle direttive secche di un maestro più anziano che seguiva solo loro.
Qualsiasi cosa facessero, non la facevano mai bene abbastanza, era tutto una ramanzina costante.
Nel pugilato, quello vero, ne ebbi quasi immediatamente l'impressione, c'era un dimensione più profonda e perdurante di solitudine.
Negli anni, questo pensiero è diventato una convinzione.
Il Combattente è chiamato a vincere per primo su stesso, sui propri demoni e le proprie paure.
È un luogo comune di quelli veri.
Non che manchi il risvolto tecnico, ma il grosso del lavoro lì, tra le corde, lo fa la forza di volontà.
Sul quadrato i pugili si scambiano colpi ad un ritmo serratissimo, senza sosta, senza pause, senza pensare ad altro, finché ne hai, finché suona la campana.
Uomini contro altri uomini, chiamati ad offrire uno show che è allo stesso tempo simulacro di una guerra e di un martirio a beneficio di un pubblico sempre famelico, che sia una sagra di paese o il titolo mondiale dei pesi massimi.
È un mondo crudo, severo, decisamente non per tutti.
Nella tensione antropologica tra collettività ed individualismo, la bilancia del pugile piega l'ago in favore della dimensione che conduce ad un isolamento rituale, necessario, inevitabile.
Forse è per questo che la storia è piena di tanti campioni che una volta lasciata l'Arte, hanno sofferto terribilmente il ritorno alla socialità.
O di combattenti della boxe come di altri sport da combattimento che, oggi come ieri, spesso incappano in errori clamorosi quando sono costretti a vivere secondo le leggi degli uomini, dopo essere stati addestrati per una vita a infrangerle nel territorio franco dell'arena.
Forse è per questo che chi li giudica troppo superficialmente, farebbe meglio a farsi qualche domanda in più e a dare qualche risposta scontata in meno.
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