Riporto qui pari pari un post di Kosmic su BDC-forum...
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Direttamente dal
sole24ore.com un interessante articolo che fa il punto sulla situazione di mercato della bici e componentistica Made in Italy al confronto con l'agguerritta concorrenza cinese tra
dumping e clonazioni.
Alcuni numeri sono davvero impressionanti e fanno riflettere parecchio...
Buona lettura!
Bici italiana, mito sotto assedio
Carlo Andrea Finotto - MILANO
«La Cina è una valanga che non si può fermare. Ma abbiamo almeno il dovere di provare a rallentarla. Altrimenti finiremo per importare miseria, il nostro settore verrà spazzato via». Per Ernesto Colnago le biciclette sono passione e vita. A 79 anni scala ancora i passi dolomitici, durante le vacanze a Cortina, e ricorda con emozione gli aneddoti della sua carriera di costruttore, dalla «prima saldatura in titanio, fatta eseguire negli Stati Uniti per la bici del record dell'ora di Eddy Merckx nel 1972» all'introduzione dei telai in carbonio in collaborazione con la Ferrari e il Politecnico di Milano: «I nostri concorrenti non si fidavano. Dicevano che non erano resistenti. Si sono ricreduti dopo che la squadra Mapei di Giorgio Squinzi ha vinto cinque Parigi-Roubaix con le nostre biciclette». Oggi la Colnago fattura 22 milioni (+8% nel 2010) con 50 dipendenti e si ostina a produrre in Italia 5mila telai e biciclette da corsa di lusso.
Per le imprese del settore la Cina è un incubo: dumping sui prezzi e prodotti clonati sono come il doping nel ciclismo. Una minaccia che rischia di far saltare il banco: «L'Italia è leader in Europa, con oltre 12mila addetti e una produzione superiore a 1,2 miliardi. Siamo al livello della Germania, su un totale europeo di 6 miliardi di valore e 60mila occupati» ricorda Moreno Fioravanti, presidente di Coliped, l'associazione europea dei componentisti.
La Commissione Ue, su iniziativa del vicepresidente Antonio Tajani, porterà al Consiglio europeo, ai primi di ottobre, la proposta di rinnovo per altri 5 anni dei dazi antidumping e anti circumvention al 48,5 per cento. «Grazie a sovvenzioni statali e costi ridotti per energia e manodopera i cinesi esportano prodotti con prezzi inferiori dal 50% a un terzo rispetto ai nostri» ricorda Piero Nigrelli, direttore del settore ciclo di Ancma (l'Associazione confindustriale del settore). All'obiettivo si frappone ancora il residuo tentativo dei Paesi del Nord Europa di mitigare il provvedimento. Dovesse accadere, la temuta valanga cinese avrà via libera. E le aziende si sentono sotto assedio.
«In Cina c'è una sovraproduzione di oltre 30 milioni di bici: non aspettano altro che i mercati occidentali abbassino la guardia per colonizzarci», assicura Guido Cappellotto, 59 anni, amministratore unico della Alpinaraggi. È già successo: negli Usa la produzione è passata da 11 milioni di biciclette a qualche centinaio di migliaia, «il Giappone è passato da 3 milioni a zero», avverte Cappellotto. La sua azienda di Lomagno (Lecco), nata nel 1926, è tra i leader mondiali del settore ed esporta il 95% della produzione: «Il fatturato 2010 è stato di 12 milioni, superiore del 5% rispetto al dato 2008 pre-crisi», spiega Cappellotto, che dà lavoro a 55 dipendenti diretti, altri 60 dell'indotto e sforna 800mila raggi al giorno. «Ma negli anni del boom della mountain bike, tra l'89 e il 2004, eravamo arrivati a 3,2 milioni».
Alla Alpinaraggi hanno fatto un calcolo: «Senza dazi perderemmo il 30% di fatturato». L'insidia, infatti, non riguarda solo costruttori o assemblatori, ma anche componenti e accessori. Nel 2009, secondo i dati Coliped, la Ue ha importato parti singole dalla Cina per 458 milioni (il 46% in più rispetto al 2001) e dall'Asia per quasi 1,5 miliardi (+31,5%). «Ma senza barriere antidumping – spiega Fioravanti – l'impatto sarebbe stato molto più elevato». Intanto, la produzione italiana di biciclette è passata dal picco di 5,8 milioni del 1994 a 2,5 milioni nel 2010, l'export è sceso dai 2,7 milioni del 1995 agli 1,3 del 2010, mentre nello stesso periodo l'import è passato da 145mila a 636mila bici. E tra il 2000 e il 2011 il numero di imprese si è ridotto del 10% (secondo i dati della Camera di commercio di Monza e Brianza). Per Colnago la sopravvivenza del settore passa necessariamente anche da un maggiore gioco di squadra nel comparto: «Dobbiamo essere più uniti anche tra di noi» ammette. Per sostenere il lavoro "politico" dell'Ancma.
Il dumping non è l'unica insidia per il destino delle imprese italiane. «Manca reciprocità» sottolinea Steven Merlini, 46 anni, responsabile commerciale di Selle Italia. «Circa 9 anni fa abbiamo aperto una società in Cina fiduciosi sulle possibilità di quel mercato – racconta Merlini –: siamo stati costretti a trovare un partner cinese, poi ci siamo accorti che sui nostri prodotti veniva applicato un dazio del 56%, che rischiava di erodere tutti i margini. Noi siamo per un mercato libero, ma a parità di condizioni per tutti per competere ad armi pari».
Merlini ha scoperto anche il metodo ingegnoso con cui le biciclette cinesi approdano in Italia e in Europa senza sovratasse: «Dietro al meccanismo c'è Taiwan», spiega: «Capita che una holding dell'ex Formosa ma con sede a Samoa controlli una società che produce bici in Cina. I pezzi vengono venduti a un trader, magari di Hong Kong, e poi esportati sull'isola, dove un'altra società della stessa holding li marchia made in Taiwan e li spedisce sui mercati occidentali. L'operazione "costa" circa 25 dollari per bicicletta ma frutta molto di più».
Le imprese hanno l'impressione di correre una gara dove i rivali sono dopati: «Ci manca poco per arrivare in cima – dice Cappellotto – e i dazi sono fondamentali. Tra 4 o 5 anni anche la Cina dovrà fare i conti con l'aumento dei costi e nel frattempo noi puntiamo sull'innovazione». Alpinaraggi, per esempio, ha 30 brevetti, e Selle Italia, che come ricorda Steven Merlini «esporta l'85% del suo milione e mezzo di selle in Germania, Francia, Usa, Giappone e Australia», investe ogni anno il 15% del fatturato (23 milioni nel 2010) in marketing e il 17% in ricerca e sviluppo. Negli ultimi 5-6 anni siamo sempre cresciuti dal 2 al 5 per cento. Non abbiamo sentito la crisi economica».
Alcuni comparti, però, sono più esposti di altri. «Nel Veneto c'erano 80 telaisti e 30 verniciatori, oggi sono rimasti rispettivamente in 2 e in 5» rivela Antonello Mattia, 51 anni. Con la sua Frame and Services di Camposanpiero (Padova) dà lavoro a 22 dipendenti e fattura circa 5 milioni commercializzando le bici con il marchio Dynatek e i componenti Tec. «Tre anni fa – ricorda Mattia – ho dovuto lasciare a casa 12 addetti ai telai: compravamo i tubi grezzi a 80 euro e qui arrivavano finiti a 25». Ma con l'Asia e la Cina in particolare c'è anche un problema di regole: «Loro utilizzano vernici al piombo che da noi sono giustamente vietate: impiegano meno tempo e abbattono i costi. Ma sono dannose».
In questo scenario, le nicchie d'eccellenza rischiano di non bastare. E le imprese sono chiamate a scelte drastiche. «Alcuni hanni fa – racconta Ernesto Colnago – ho spostato a Taiwan la produzione di biciclette di fascia media destinate ai mercati orientali. Ne produciamo 12mila all'anno, tutte certificate e controllate da noi». Ci sta pensando anche Cappellotto, «per fornire i nostri clienti in quell'area in tempo reale. Ormai i più grossi costruttori e componentisti al mondo sono in Asia. Ci affideremo a un partner. Lo facciamo per guadagnare quote di mercato, non per delocalizzare».
Qualsiasi strategia, però, non mette al riparo dalle clonazioni illegali. E se Pinarello mette in guardia sul proprio sito (
[url]www.pinarello.it[/URL]) – «Attenzione ai falsi telai» – proprio Colnago ha scoperto di recente «un telaio identico a un modello che abbiamo smesso di realizzare. Ovviamente a un prezzo molto inferiore. Anche se abbiamo individuato il responsabile, il problema è rintracciarlo: è scappato in Cina».
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interessante per alcuni punti di vista e meno per altri ma fa sicuramente riflettere...