l'intervista completa
"Due
ruote in alta quota
L'ex campione mondiale di bike trial e inviato di Striscia la notizia tenta l’impresa con l’aiuto di Simone Moro. La diretta sul blog di Vittorio Brumotti sul Corriere.it
Vittorio Brumotti, campione del mondo di bike trial nel 2006 e inviato molto speciale di Striscia la notizia dal 2008, ha imparato ad andare in biciletta senza rotelle a quattro anni, in discesa. «Era estate, a Boissano, nella mia terra (Liguria, ndr), in campeggio con i cugini; c’era una strada asfaltata, ripida, con una curva a destra oppure dritta nello sterrato e ghiaia. Sono andato dritto e sono rimasto in piedi». Una scelta di vita: da allora non è praticamente più tornato coi piedi per terra; sempre sui pedali, spesso a immaginare nuove acrobazie da realizzare con due ruote. «Sto fermo solo una settimana all’anno, per il resto mi alleno sempre, da otto a dieci ore al giorno. A volte anche di notte. E in effetti cammino male, tutto storto. Si vede che non sono abituato». È un 30enne molto particolare, fatto per saltare con la bici dal tetto di un camion all’altro, pedalare in equilibrio sulle ringhiere dei balconi al decimo piano e fare settantun saltelli sulla ruota posteriore in cima alla guglia di Punta Cariddi, in Sardegna, un picco di 150 metri sul mare dove c’è posto per un tavolino da bar. Non nasconde che la sua passione sia anche follia, con cui però gioca da adulto. A farlo crescere ci sono stati i legamenti del ginocchio partiti del tutto, e mai più tornati al loro posto, e l’osso di una spalla rimasto fuori, bene in vista, a futura memoria. Si è rotto quasi tutto, tranne la testa che è rimasta l’unica cosa sana, più o meno, e sicuramente piena di sfide e di sogni. Adesso vuole salire in cima all’Everest. Parte il 26 di marzo, con il miglior maestro che poteva trovare: Simone Moro, unico alpinista della storia ad aver salito tre 8mila in invernale: Shisa Pangma nel 2005, Makalu nel 2009 e Gasherbrum II nel 2011. (Tutta l'avventura in diretta sul blog del Corriere.it)
Qual è stata la tua prima bici? «Una Monti della Montesa. Era la più bella che c’era in quegli anni. Io la volevo usata, ma Claudio ed Elisabetta (i genitori li chiama sempre per nome, ndr) me l’hanno regalata nuova, quando avevo 11 anni, facendo grandi sacrifici. Ho deciso di ripagarli non smettendo più di pedalare. Sapevo che ce l’avrei fatta. Anche se ero un bambino ho avuto una sensazione molto chiara, da adulto se ci penso adesso: ho sentito che quell’oggetto era come un’estensione del mio corpo, con la quale avrei potuto fare qualsiasi cosa. Ora ne ho circa 50 di biciclette, di tutti i generi e tipi. Sono dovunque, anche in bagno. Le lavo nella vasca. Ma, sembrerà strano, io non me ne intendo e, quando non sono in sella, non parlo mai di biciclette».
Ma all’inizio pedalare sarà pur stato un gioco anche per te. O no? «In parte sì, ma a 14 anni avevo già un telefonino con cui vendevo i miei show e andavo in giro a esibirmi. Avevo già vinto qualche gara e chiamavo le aziende, potenziali sponsor, cominciando a guadagnare, usando la partita Iva di Elisabetta. Ero felice di poter ripagare tutti i sacrifici che loro due facevano per me».
Come è il tuo carattere? «Sono sicuramente un solitario. Non c’entro niente con il personaggio che la gente si immagina io sia: sempre in giro, tra una festa e l’altra e pieno di donne. Non è così. Chi mi conosce bene sa che conduco una vita tranquilla: sono fissato nel mangiare, praticamente solo petto di pollo, riso, bianchi d’uovo e bresaola. Pochi carboidrati, solo quando aumento il ritmo degli allenamenti. Mi piace andare al cinema da solo e ci vado spesso. Ho una casa a Milano 2, stranissima, dove mi piace molto stare. Vado a letto presto, perché gli allenamenti sono pesanti. Però capitano anche volte in cui mi sveglio alle tre di notte e scendo in garage a provare una nuova figura o un nuovo salto che mi è venuto in mente. Odio essere catalogato e non seguo le mode. Da quando vado in tv penso ci si faccia facilmente un’idea sbagliata di come io sia veramente, ma è anche vero che se non ci fossi andato adesso non sarei qui a pensare di salire sull’Everest».
C’è stato un momento della tua vita in cui hai capito che potevi diventare un campione? «Due momenti: sui vent’anni vedevo che avevo le doti per catturare l’attenzione del pubblico durante le gare. Applausi, successo. Ero il più bravo in quello, ma ero più uno showman che un atleta. A quel punto però ho capito che, riducendo un po’ il “cinema” e concentrandomi di più sulla disciplina, ce la potevo fare. Alle sette di mattina ero già nei fiumi e bagnavo io tutte le pietre su cui saltavo per allenarmi nelle condizioni più difficili. Nel campionato del Mondo del 2005 sono arrivato secondo e nel 2006 l’ho vinto».
Come ti sei allenato per l’Everest? «Ho imparato a conoscere la fatica e la paura. Simone Moro ha voluto che andassi da solo sulle montagne in questi mesi, senza di lui. Pensava fosse utile che sbattessi il naso da solo, che fossi io a decidere il limite. Non me l’ha mai detto esplicitamente, ma credo mi abbia messo alla prova: per farcela, non dovevo avere maestri. Se me la cavavo potevo provare a seguirlo sull’Everest. Credo di avercela fatta, anche se ci ho quasi lasciato la pelle: sul Peak Lenin, in Kirghizistan, ho davvero avuto paura di morire. È stato diverso da tutte le altre volte che ho provato quella sensazione. Quando vado su una ringhiera di un balcone a 30 metri di altezza tutto dipende dalla mia mente e dal mio corpo e so di essere quasi sempre in grado di rimediare a un mio errore. Una volta, per esempio, ho sbagliato ma è stata la bici a volare sotto; io sono caduto sul balcone. In montagna invece quasi tutto dipende dalla natura e tra la sua forza e la mia non c’è paragone. Io e la mia bici là sopra siamo due pulci. La fatica, il fiato, il freddo, la neve, il vento, il buio, tutto diventa difficile. La natura per me è diventata una divinità da rispettare. Juri Baruffaldi, il mio allenatore, mi ha fatto risalire tutte le piste nere della Valtellina. Poi ho percorso dal Rifugio Casati alla vetta del Cevedale senza mai mettere piede a terra, alternando pedalate a salti di crepacci».
Cosa è successo sul Peak Lenin? «Era lo scorso 6 agosto. Era la mia seconda uscita sopra i 5mila. Io soffro terribilmente il mal di montagna. Anche altre volte avevo visto che io ero quello che stava sempre peggio di tutti. Da quando mi alleno in quota convivo con l’emicrania. Secondo Simone dipende sia dalla mia struttura muscolare sia dal fatto che pedalando brucio più ossigeno. Quella notte, sulla parete del Peak Lenin, quando ero in tenda sentivo la testa che esplodeva e mi veniva continuamente da vomitare. Non sapevo cosa fare: con il satellitare ho chiamato Simone e lui mi ha detto che era il principio di un edema cerebrale e che dovevo scendere subito, senza perdere un minuto. Poi la linea è caduta. Ho mollato tutto, tenda, bacchette, bici e ho cominciato a scendere ma non riuscivo quasi a stare in piedi. Ero solo. A un certo punto è scesa una frana e mi ha preso in pieno. Mi sono trovato, credo dopo un centinaio di metri, dolorante, attaccato a un grosso roccione che aveva arrestato la mia caduta prima di uno strapiombo di almeno 200 metri. Il satellitare non prendeva, ero sfinito. Mi stavo lasciando andare. A un certo punto l’altro telefonino, non il satellitare che era morto, fa il bi-bip di un messaggio. Era di Herta Diemoz, la mamma di André, un ragazzino 14enne mio fan, conosciuto per caso in un autogrill, investito da un’auto mentre era in bici un anno dopo che ci eravamo visti. Stava pedalando sulla strada provinciale Santa Teresa – Pianella, in Abruzzo. Dopo questa tragedia con Herta eravamo diventati amici, ci sentivamo spesso. Lei sapeva che io partivo per il Kirghizistan e quella notte mi ha mandato un sms che diceva: “Ciao Vittorio, dovunque tu sia io e André ti mandiamo la nostra energia. Saluti”. Quell’sms mi ha ridato la voglia di lottare di nuovo. Ci ho messo due ore ma mi sono trascinato fin sopra la frana e sono arrivato sul sentiero dove alla mattina mi hanno soccorso e portato al campo base. Chissà come diavolo è arrivato quel messaggio. Non ho mai raccontato questa storia ma sono sicuro che faccia piacere anche a Herta che si sappia. È bella, no?».
Stefano Rodi