Un articolo di Vittorio Zucconi sulla morte di Pantani. Io l'ho trovato
bello, se avete tempo e voglia, leggetelo.
Ciao
La droga
Non è il doping, non è la solitudine, non è l'eritropoietina, non sono stati
gli antidepressivi o che altro ci fosse nei flaconi che aveva con sè
nell'ultima stanza della sua vita, a uccidere Marco Pantani. Siamo stati
noi, i tifosi, gli appassionati, i lettori di giornali e i consumatori di
telefinzioni, che costruiamo idoli più grandi della vita e poi li
scarichiamo come simulacri vuoti di gesso dimenticando che essi non sono
ciclisti, centravanti, pugili ma esseri umani spesso fragilissimi, a
ucciderlo.
Su tutti coloro che lavorano in pubblico, che siano ballerine o tenori,
sportivi professionisti o giornalista, politicanti o comici, pesa l'incubo
della oscurità, della morte civile, della vecchiaia. Ma su nessuno, come su
un campione dello sport, il raggio di luce è più effimero, la vita
professionale è più breve, il futuro più vuoto. Infanzie e adolescenze
consumate nell'impadronirsi di tecniche complesse ma completamente inutili,
il controllo della palla, il colpo di pedale, le tattiche, il jab destro o
sinistro, la corretta esecuzione di un tiro libero, si bruciano in pochi
anni, al massimo in un decennio per i più fortunati. E alla metà dei
trent'anni, quando la vita per una donna o un uomo qualsiasi è appena
cominciata e resta statisticamente un mezzo secolo da vivere, si trovano - a
volte - con le tasche piene e il cuore vuoto. Un cantante può trascinare la
propria carriera gigioneggiando oltre i sessant'anni, come un Pavarotti, un
giornalista può scrivere fino a novant'anni, come i Montanelli, i Biagi o
gli Scalfari. Ma Ronaldo a sessant'anni non giocherà più e nessuno vincerà
un Tour a cinquant'anni, neppure il miracoloso Armstrong.
La ghigliottina del tempo e dell'oscurità è tanto più terribile quando più
sontuoso è stato il piedistallo costruito dallo "sport business" sotto i
piedi della vittima e soprattutto in sport individuali come il ciclismo. E
il palco non è mai stato enorme come lo è oggi, quando l'adorazione popolare
per il campione del momento si fa industria colossale attorno a lui o lei.
Investimenti da media industria sono fatti attorno ai legamenti, agli
adduttori, ai polpacci, alle ossa, alle mani, ma quasi mai attorno al
cervello e all'anima, di uno sportivo, che in cambio deve produrre, perché
nessuno regala nulla. Il "prodotto" deve giocare anche quando non è in
forma, anche se non ne ha voglia, perché costa un sacco di soldi, perché la
chirurgia e l'ortopedia e la medicina oggi sono in grado di riparare
organismi che ancora pochi anni or sono avrebbero ceduto.
Il doping, qualunque cosa questa parola troppo generica significhi
(un'infiltrazione di cortisone e novocaina per far giocare chi non sarebbe
altrimenti in grado di farlo è doping?) non è la causa, è l'effetto di una
situazione nella quale ragazzi quasi sempre profondamente immaturi, mal
consigliati, circondati da sicofanti e leccapiedi interessati che gli
congelano lo sviluppo psicologico per trasformarli in eterni bambini, si
trovano davanti alla pillola o alla siringa che può fare la differenza tra
una vita al banco di un bar o l'apoteosi sui Pirenei. Si può chiedere a un
ragazzo africano un po' gracilino la scelta eroica di restare pulito in
Nigeria o in Sierra Leone a pascolare le capre, anziché pomparsi per
diventare appetibile al Manchester, al Chelsea, al Milan, alla Juve o anche
soltanto al Perugia?
Con quali paraocchi possiamo, noi cannibali del tifo che danziamo attorno al
pentolone dove bolle la vittima, chiedere a calciatori di fare 80 partite
all'anno, a ciclisti di fare tappe di montagna a medie che sarebbero
difficili da tenere guidando una buona automobile e stancherebbero il
guidatore, bevendo l'acqua dell'uccellino di Del Piero o le aranciate con un
pizzico di sale dentro? Ma chi prendiamo per il sedere, noi stessi o loro?
Quanto sarebbe stato grande, il "Pirata", se avesse avuto la forza di andare
in tv, quel giorno orrendo della squalifica, e dirci, ma state zitti, branco
di ipocriti sanguinari che pur di provare il brivido surrogato della
vittoria attraverso di noi sareste pronti a imbottirci di tritolo, altro che
eritropoietina, ma preoccupatevi dei vostri figli, ma aprite gli occhi, ma
non lo sapete che qui si pompano tutti, se vogliono vincere?
Non lo ha fatto perché aveva sperato ancora di tenere lontano da sè la fine
della propria vita, cioe il ciclismo, che era la sua vita. La lunga discesa
verso l'oscurità che attende il 99,9 di coloro che oggi sono "i nostri eroi"
è terribile per tutti, e può essere mortale per chi, come Marco Pantani, non
scende, ma precipita di schianto nella trappola spalancata sotto i piedi. La
decompressione dell'idolo può essere mortale, come per un sommozzatore, se
la risalita è troppo violenta. La scoperta di essere soltanto pezzi di una
macchina che saranno sostituiti e dimenticati, come il pistone o lo
scappamento, se non funzionano più bene, ha effetti micidiali, se il "pezzo"
non ha sempre avuto la coscienza di essere, appunto, soltanto questo, un
attore in in show che altri possono recitare. Ma chi riesce a mantenere la
prospettiva della realtà, quando ogni minuto della vita è circondato da
cortigiani e agitatori di flabelli?
Quei minuti di silenzio, quella retorica in scatola e quei bracciali a lutto
sono maquillage autogiustificatorio di chi sa di avere code di paglia lunghe
come i tapponi pirenaici. Non possono nascondere la ferocia cannibalistica
di un mondo dello "sport business" che mastica e sputa i bocconi, quando
perdono il sugo e il sapore. Non ci saranno mai leggi o alambicchi che
possano riconoscere e combattere il "doping" mentale che avvelena lo sport e
del quale il "doping" farmacologico è soltanto l'effetto secondario. Per
questo, come per tutti i vizi, la cosa più difficile non è cominciare, ma
smettere. Marco Pantani è morto da "tossicodipendente" dello sport al quale
è stata tolta la droga che noi, i suoi adoratori e carnefici, gli avevamo
venduto. Il resto è retorica.
PS: Niente commenti alle - per lo più squallide - partite della giornata. La
morte di Pantani toglie ogni desiderio di fare battute, persino sull'Inter.