Ieri ero nostalgico, e di conseguenza ho ammantato di connotati da melodramma napoletano i miei sette giorni sulle Dolomiti.
Alcuni passaggi erano così melensi che a confronto le interpretazioni di Mario Merola sembrano scarne, minimaliste e degne della migliore documentaristica cinematografica.
Per riequilibrare un po’ le cose ricorderò ora i miei episodi ciclistici con un occhio più cinico, che è quello che alla lunga preferisco.
Allora, al mio arrivo, sabato, ho fatto un salto a Villabassa, dove c’era la Dolomiti Superbike e ho conosciuto Annalisa, che, per chi ha una Canyon, è come la Marcegaglia per un industriale, onnipresente e ammantata di mistero.
Le ho chiesto subito informazioni su telai della Nerve XC, lei mi ha risposto di non preoccuparmi perché la Canyon li ha rinforzati, io le ho detto che invece mi preoccupo perché io c’ho il telaio precedente a quello che la Canyon ha rinforzato, lei ci ha messo una toppa (alla gaffe, non al telaio), ha subito trovato un altro buon motivo per tranquillizzarmi e da lì è andato tutto bene, una ragazza sveglia, dinamica e con due occhi azzurri come il collarino della Strive 9.0.
Il martedì seguente era il giorno dell’impresa, la conquista di Prato Piazza.
Il nome può ingannare, a Roma un prato è un prato, una piazza è una piazza e quasi sempre sia uno che l’altra li sono stati collocati in pianura.
Sulle Dolomiti invece Prato Piazza l’hanno messo a 2.000 metri di altitudine.
Ma su un depliant di percorsi MTB del luogo la salita era data come facile, io non ho fatto caso che le recensioni erano di Reinhold Messner, e sono andato.
Vi dico solo che a un certo punto passavo il tempo contando i secondi intercorrenti tra un goccia di sudore e un’altra che cadevano sul top tube, e questi secondi diminuivano.
Un po’ come i secondi che passano tra il lampo e il rumore del tuono, che se diminuiscono sono cazzi perché il temporale si avvicina, così io mi preoccupavo della sinistra velocità di caduta delle mie gocce di sudore.
Vabbé, passati così allegramente circa 30 minuti, e arrivato ad una specie di pedaggio chiedo ad un local (che ho scoperto più tardi essere Caronte di guardia all’Ade) se la salita fino alla vetta era altrettanto faticosa.
Mi ha detto di no, ma non ho capito se era sempre Messner, se era un sadico o se pensava che lasciavo lì la bici e andavo su con la navetta.
Comunque, ho sempre dato troppa fiducia alla gente, e ho proseguito.
Gli ultimi 500 metri sono sempre i più faticosi ed io per la prima volta ho dato un senso alla cassetta da 10 che non ho, ma lo avrei dato anche a quella da 20, se fosse esistita.
Comunque ce l’ho fatta, e mi sono fatto immortalare sullo sfondo del rifugio con la scritta “2.000 mt. slm” da circa 157 turisti, per essere sicuro che la foto venisse.
Addirittura ho invitato parecchia gente a fotografarmi con la loro, di macchina fotografica.
Dentro al rifugio mi ha raggiunto un ciclista da strada.
Gli ho chiesto se era stata dura e mi ha risposto con un espressione tanto affermativa quanto sboccata.
Gli ho detto che era stato sincero nella risposta, sinceramente stupito perché di solito tra ciclisti ma tra simili in generale si tende a fare un po’ i gradassi e gli si è dipinta sul volto un espressione di terrore: “Ma sei in bici pure tu?”.
“E certo, faccio trailbiking, ho i pantaloni larghi, la bandana e il casco è fuori sul manubrio, ma sto in bici pure io!” e gli ho sorriso.
Lui se n’è andato incazzato, e ho capito che non era stato sincero, ma mi aveva preso per uno a piedi e aveva esagerato al contrario dicendo che era stata durissima perché lui se l’era fatta in bici.
Pazienza, non finirò mai di stupirmi della scarsa empatia del genere umano, nemmeno in cima al mondo.
La discesa l’ho fatta in compagnia di Alex, un ragazzo di Brunico che credeva di parlare italiano ma che alla fine ho smascherato perché a 42 all’ora in piena discesa gli ho urlato se una mucca che ci tagliava la strada in mezzo al sentiero era la Sardegna e lui mi ha detto di ya.
Mi sto dilungando, i miei migliori episodi ciclistici finiscono praticamente qui.
Ah, un accenno alla Dobbiaco-Lienz fatta con mia moglie lo devo fare.
Per quei pochi che non lo sanno, si tratta di una ciclabile in sostanziale discesa, meravigliosa e lunga una cinquantina di chilometri.
Io ho studiato le altimetrie, ho preso la macchina, portato mia moglie a Dobbiaco, affittato la bici più comoda (una Harley), caricato il mio zaino anche del doposole e di una forcella di ricambio, l’ho fatta salire sulla bici, le ho fatto un corso e l’ho lanciata.
La discesa ha fatto il resto.
A Lienz era fresca come una rosa le avevo fatto il book, l’ho portata a pranzo tra birra, wurstel e formaggi, e verso le 15.00 l’ho messa in treno.
Ha sonnecchiato fino all’albergo, dove si è addormentata felice.
Sarebbe tutto stupendo se non fosse che ora lei ha una percezione completamente distorta rispetto a cosa è la bici in realtà.
Lei ora pensa che andare in bici sia:
- gratis
- comodo
- riposante
- senza traffico
- in mezzo al paradiso
- con il pranzo al ristorante a metà strada
- con un sonnellino durante il ritorno
Non devo dire a voi che spesso la bici è proprio il contrario, e onestamente non sono stato a dirlo neanche a lei.
Certo, ora vedo che quando le racconto le mie imprese mi guarda con più scetticismo di prima, la vedo pensare “e che sarà mai, io ho fatto 50 chilometri senza allenamento!”, ma ci faccio un sorriso su, ripenso a Prato Piazza e soprattutto ripenso che quando siamo tornati in albergo mi ha detto che è stata una delle giornate più belle della sua vita, e a questo non c’è prezzo che non sarei disposto a pagare (vade retro Merola!).
Claudio
Alcuni passaggi erano così melensi che a confronto le interpretazioni di Mario Merola sembrano scarne, minimaliste e degne della migliore documentaristica cinematografica.
Per riequilibrare un po’ le cose ricorderò ora i miei episodi ciclistici con un occhio più cinico, che è quello che alla lunga preferisco.
Allora, al mio arrivo, sabato, ho fatto un salto a Villabassa, dove c’era la Dolomiti Superbike e ho conosciuto Annalisa, che, per chi ha una Canyon, è come la Marcegaglia per un industriale, onnipresente e ammantata di mistero.
Le ho chiesto subito informazioni su telai della Nerve XC, lei mi ha risposto di non preoccuparmi perché la Canyon li ha rinforzati, io le ho detto che invece mi preoccupo perché io c’ho il telaio precedente a quello che la Canyon ha rinforzato, lei ci ha messo una toppa (alla gaffe, non al telaio), ha subito trovato un altro buon motivo per tranquillizzarmi e da lì è andato tutto bene, una ragazza sveglia, dinamica e con due occhi azzurri come il collarino della Strive 9.0.
Il martedì seguente era il giorno dell’impresa, la conquista di Prato Piazza.
Il nome può ingannare, a Roma un prato è un prato, una piazza è una piazza e quasi sempre sia uno che l’altra li sono stati collocati in pianura.
Sulle Dolomiti invece Prato Piazza l’hanno messo a 2.000 metri di altitudine.
Ma su un depliant di percorsi MTB del luogo la salita era data come facile, io non ho fatto caso che le recensioni erano di Reinhold Messner, e sono andato.
Vi dico solo che a un certo punto passavo il tempo contando i secondi intercorrenti tra un goccia di sudore e un’altra che cadevano sul top tube, e questi secondi diminuivano.
Un po’ come i secondi che passano tra il lampo e il rumore del tuono, che se diminuiscono sono cazzi perché il temporale si avvicina, così io mi preoccupavo della sinistra velocità di caduta delle mie gocce di sudore.
Vabbé, passati così allegramente circa 30 minuti, e arrivato ad una specie di pedaggio chiedo ad un local (che ho scoperto più tardi essere Caronte di guardia all’Ade) se la salita fino alla vetta era altrettanto faticosa.
Mi ha detto di no, ma non ho capito se era sempre Messner, se era un sadico o se pensava che lasciavo lì la bici e andavo su con la navetta.
Comunque, ho sempre dato troppa fiducia alla gente, e ho proseguito.
Gli ultimi 500 metri sono sempre i più faticosi ed io per la prima volta ho dato un senso alla cassetta da 10 che non ho, ma lo avrei dato anche a quella da 20, se fosse esistita.
Comunque ce l’ho fatta, e mi sono fatto immortalare sullo sfondo del rifugio con la scritta “2.000 mt. slm” da circa 157 turisti, per essere sicuro che la foto venisse.
Addirittura ho invitato parecchia gente a fotografarmi con la loro, di macchina fotografica.
Dentro al rifugio mi ha raggiunto un ciclista da strada.
Gli ho chiesto se era stata dura e mi ha risposto con un espressione tanto affermativa quanto sboccata.
Gli ho detto che era stato sincero nella risposta, sinceramente stupito perché di solito tra ciclisti ma tra simili in generale si tende a fare un po’ i gradassi e gli si è dipinta sul volto un espressione di terrore: “Ma sei in bici pure tu?”.
“E certo, faccio trailbiking, ho i pantaloni larghi, la bandana e il casco è fuori sul manubrio, ma sto in bici pure io!” e gli ho sorriso.
Lui se n’è andato incazzato, e ho capito che non era stato sincero, ma mi aveva preso per uno a piedi e aveva esagerato al contrario dicendo che era stata durissima perché lui se l’era fatta in bici.
Pazienza, non finirò mai di stupirmi della scarsa empatia del genere umano, nemmeno in cima al mondo.
La discesa l’ho fatta in compagnia di Alex, un ragazzo di Brunico che credeva di parlare italiano ma che alla fine ho smascherato perché a 42 all’ora in piena discesa gli ho urlato se una mucca che ci tagliava la strada in mezzo al sentiero era la Sardegna e lui mi ha detto di ya.
Mi sto dilungando, i miei migliori episodi ciclistici finiscono praticamente qui.
Ah, un accenno alla Dobbiaco-Lienz fatta con mia moglie lo devo fare.
Per quei pochi che non lo sanno, si tratta di una ciclabile in sostanziale discesa, meravigliosa e lunga una cinquantina di chilometri.
Io ho studiato le altimetrie, ho preso la macchina, portato mia moglie a Dobbiaco, affittato la bici più comoda (una Harley), caricato il mio zaino anche del doposole e di una forcella di ricambio, l’ho fatta salire sulla bici, le ho fatto un corso e l’ho lanciata.
La discesa ha fatto il resto.
A Lienz era fresca come una rosa le avevo fatto il book, l’ho portata a pranzo tra birra, wurstel e formaggi, e verso le 15.00 l’ho messa in treno.
Ha sonnecchiato fino all’albergo, dove si è addormentata felice.
Sarebbe tutto stupendo se non fosse che ora lei ha una percezione completamente distorta rispetto a cosa è la bici in realtà.
Lei ora pensa che andare in bici sia:
- gratis
- comodo
- riposante
- senza traffico
- in mezzo al paradiso
- con il pranzo al ristorante a metà strada
- con un sonnellino durante il ritorno
Non devo dire a voi che spesso la bici è proprio il contrario, e onestamente non sono stato a dirlo neanche a lei.
Certo, ora vedo che quando le racconto le mie imprese mi guarda con più scetticismo di prima, la vedo pensare “e che sarà mai, io ho fatto 50 chilometri senza allenamento!”, ma ci faccio un sorriso su, ripenso a Prato Piazza e soprattutto ripenso che quando siamo tornati in albergo mi ha detto che è stata una delle giornate più belle della sua vita, e a questo non c’è prezzo che non sarei disposto a pagare (vade retro Merola!).
Claudio