Pantaloni e camicia finiscono sul parquet, poi quell’ attimo in cui sempre mi stranisce la presenza estranea del fondello imbottito tra le gambe; lo zaino già pronto, la bottiglietta presa al volo, il “tac” delle scarpe che si attaccano ai pedali e sono in sella.
Il traffico caotico di fine giornata e nelle auto persone con la mia stessa espressione di una manciata di minuti prima; non io: la mia prospettiva è cambiata.
Infastidisce l’attenzione che necessariamente devo dare alla strada, alle auto che ho intorno: rubata al godere dei colori del rilievo al quale mi sto avvicinando mentre lentamente i rumori si smorzano, l’aria si pulisce e i pedali cominciano a indurirsi.
Una sbarra, lo stringersi della strada in un sentiero o semplicemente l’asfalto che scompare ed incredibilmente è un altro mondo: i pensieri si allungano fino a stemperarsi nella fatica seguendo il ritmo del respiro o del solito rumorino della bici che inutilmente tento di debellare da mesi.
Anche quassù è un giorno feriale: lo intuisco dal trattore che accosta sul mortale acciottolato per non interrompere il ritmo della mia salita e dal sorriso discreto di chi lo guida al cenno grato che faccio con la testa. Lo stesso, impercettibile, cenno di saluto scambiato con i tanti runners che si allenano: la fatica si rispetta, sempre. Chi fa fatica lo sa e non ne è mai infastidito.
Le case a valle ancora in pieno sole si rimpiccioliscono e i minuti scorrono via come su un piano inclinato.
Poi arrivo: ora la discesa, il casco, le protezioni, il sentierino con i passaggi che già ripasso col pensiero.
Ma prima appoggio il piede e guardo giù.
Ora sto bene.