Un anno e mezzo dopo...

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FRWalter

Biker urlandum
17/6/08
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Sulle nuvole
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Questa è proprio buona. In questi giorni, come tutti gli anni, mi accingo a fare pulizia nei mie computer (un fisso e un portatile), eliminando le cose inutili accumulate da un anno con l'altro, e salvando su HD esterno quelle che potrebbero tornare in uso da un momento all'altro.

E cosa ti vado a trovare?!? Il racconto della piovosissima e fangosissima 6 ore del parco dei Barboj del 20 Giugno 2010. Non mi ricordavo neanche di averla scritta, ha dormito per un anno e sei mesi nell'hard disk del mio portatile, e adesso, prima di consegnarla alla gloria imperitura, l'ho riletta.

E ve la sottopongo:

“LA CATARSI”​
(RIVALTA DI PARMA, 20 GIUGNO 2010)​

“Ma non avrò sbagliato continente?!?” La domanda sorge spontanea: domani è estate, e qui, al parco dei Barboj di Rivalta, ci saranno 15 gradi ad andare bene. Questo inverno non vuole finire: una parentesi soffocante di circa una settimana in mezzo a un romanzo ininterrotto e monotono di vento, pioggia, freddo, giornate col clima che cambia in un paio d’ore. Abbiamo visto il freddo siberiano, la neve a Marzo, e tutto quello che a un ciclista fa molto piacere, tipo 2 settimane ininterrotte di pioggia, e altre amenità del genere.

E’ passato un mese da quei giorni, e non so se ne valga la pena parlarne, ma la MTB almeno per il sottoscritto è divertimento, e tornare bambini a 31 anni appena compiuti lo vedo come un privilegio totale.

Parto di casa alle 8 del mattino, ci vogliono un paio d’ore per giungere a destinazione. L’ho sempre considerata come una trasferta domestica o quasi, in una stagione fatta di transumanze interregionali decisamente impegnative, sia come tratta chilometrica, che come mole di oggetti da trasportarsi. A Rivalta si corre in 6 ore, e infatti rimango quasi sorpreso nel vedere che Massimo, Omar, Juri, Michele e Andrea hanno tirato in piedi una sorta di mini-accampamento. Ma Omar e Massimo la faranno a coppie, presentandosi come “Regalati siam cari - XS”, dopo la modalità extended play di Finale Ligure che vedeva uno schieramento iniziale di 8 partenti. Freddo, dicevamo, al mio arrivo non piove, ma è una tregua momentanea. Tutti sperano che il tempo abbia un minimo di clemenza dalle 12.30 in poi, ma è dalla sera prima (e chissà da quanto ancora) che diluvia, quindi la speranza è tutt’altro che ben riposta. Il tempo di andare alla capannina dei Kino Mana, il comitato organizzativo, ritirare il numero di gara e il pacco dei gadget, che prevedeva, molto ottimisticamente, un doposole, rivelatosi utile solo a distanza di qualche giorno, complice un deciso mutamento climatico. Poi un caffè, e da lì, due pallosissime ore prima della partenza: per una volta nella storia, mi sono mosso con uno sfacciato anticipo. Qua siamo all’inizio dell’appennino, il telefono non prende, e questo isolamento dal mondo lo approvo come una benedizione, in questo luogo dove il tempo pare essersi fermato. Fuori dall’autostrada, interminabile corridoio tutto dritto, vedo quei luoghi che adoro, che non conosco troppo bene, e che una vita non basterebbe a conoscere.

“Si corre sul corto”. L’annuncio accompagna un diluvio. Io mi sono saggiamente premunito di giacchino antipioggia, ma di altro non ho portato molto, solo una divisa di ricambio che resterà mestamente parcheggiata in macchina. Questo “corto” di Rivalta è un tracciato molto diverso, e molto più breve, del canonico anello di circa 7 km. che mi ha visto sputare i polmoni in una giornata di caldo infernale lo scorso anno. Si tratta più o meno di una lunga salita su asfalto, che poi spiana e dà su un falsopiano in discesa, poi, un’altra salita breve e ripida, discesa su asfalto, salita su erba quindi un attraversamento su fango, pardon, volevo dire su terra, tagliando di fianco una collinetta, e alla fine “lei”, la discesa su erba, ripida e dritta, da prendere con gli addominali tesi, senza pensare né a pedalare né a frenare (durante), ma solo al momento buono per iniziare il rallentamento prima della curva a destra. Conclude il circuito l’attraversamento di un ponticello, quindi si passa in zona rifornimento/cambio e ricomincia il giro.

Totale: qualcosa più di due km. Abbastanza per trasformare il percorso abituale in qualcosa di monotono, metodico, troppe volte uguale e troppo rapidamente simile a quanto già visto. Ma anche un lavoro compilativo come questo può portare a sorprese, con un tempo fatto così: apposta per creare disagio. Innanzitutto c’è il rischio di sbagliare l’andatura, esagerare, tirare in salita i rapporti da pianura, andandosela letteralmente a cercare, oppure di fare l’esatto opposto, rifugiarsi nel turismo esplorativo facendo meno giri del previsto.

Comunque sia, pronti, e alle 12.30, minuto più minuto meno, partenza. Tempo di salire sulla bici e mi rendo conto, pronti via, di aver perso la bomboletta gonfia-ripara. Che culo, penso tra me e me, mentre vento e pioggia mi frustano la faccia. Mi approccio alla salita su asfalto con calma, senza la mia foga abituale. Mi sento abbastanza carico, anche se trovo abbastanza frustrante darmi da fare in queste condizioni. In certi momenti smette addirittura di piovere. Si, per due minuti al massimo. Se le cose stanno così, allora, mi tocca concludere che non fa differenza.

Mi godo il tratto in falsopiano prima dell’ulteriore piccola salita, cerco di ritardare il più possibile la frenata prima della curva strettissima che conclude la discesa su asfalto, cerco l’equilibrio nell’affrontare il tratto in ghiaione che dichiara la fine della pacchia e l’inizio della salita. Una lingua di erba bagnata, ripida, scivolosa, ostile. A mano a mano che la si percorre diventa più umida, e i numerosi passaggi di gomme tassellate riducono il fondo a qualcosa di pietoso, quanto mai di scarsa aderenza. Apprezzo i miracoli svolti dalla mia nuova gomma posteriore, ma nel punto più alto, dove automaticamente la foga costringe a uno sforzo extra per terminare la sofferenza, capita che la pedalata vada a vuoto, a volte addirittura più di una, trasformando la bici in una sorta di cyclette. E lì, scendere e spingere.

Il tratto successivo sembra un percorso di sopravvivenza. Dicevo: si taglia di traverso un tratto fangoso parallelo alla salita appena affrontata, poi si passa rasenti al muro di una casa prima della discesona che riporta giù dove inizia il tracciato. E qua nessuno, praticamente, riesce a fare tutto il tratto in sella alla bici. La terra è diventata un liquame che si accumula sui copertoni, sulla catena e sui pignoni della bici, insidia le tacchette degli scarpini, e che ti ritrovi in faccia quando affronti in velocità i tratti non asfaltati. C’è chi come me la prende sul ridere, chi stoicamente, come Michele, affronta tutto con fare impassibile, ci sono Omar e Massimo che compilano 53 fascicoli della pratica, fuori uno dentro l’altro, senza tempi morti. Juri, che non perde occasione per urlare e fare scenette divertenti, Andrea che pare decisamente provato.

Il tracciato originale è un’altra cosa: molto più stimolante, anche impegnativo, ma quella che pensavo sarebbe stata una frustrazione non si è rivelata tale. Anche e soprattutto la discesona in erba che ho più volte citato. E’ passato più di un mese, ma il ricordo è ancora vivo: attimo di esitazione, che ti costringe a tendere gli addominali e afferrare il manubrio con più vigore, inspirare dalla bocca rapidamente e con violenza, e da lì, per una manciata di lunghi secondi:


Catarsi: scarica, evacuazione, sfogo, espressione, espulsione.

Giù per questo scivolo naturale a una velocità che i più definirebbero folle, mentre vengo fagocitato dalla pura e semplice gravità. Ci voleva, dopo il mio misero tentativo di salita allo Stelvio. Non è più una questione di aderenza o di equilibrio, è pura liberazione, mentre si sollevano zolle di fango, e mi capita di beccarne una in un occhio, e al giro dopo, un’altra in bocca. Ma è una sensazione da provare: si sputa un po’ di cattivo umore assieme al fango. Vecchioni, nella sua “canzone per Alda Merini”, mi fornisce la definizione esatta di quello che provo: è cielo e voragine, e terra che mangio per vivere ancora. Lui la usa in tutt’altro campo, ma pare fatta apposta. Ti godi il breve miracolo dell’accelerazione libera, e ne approfitti per sputare un po’ di veleno della consuetudine.

Le sei ore passano in fretta, io ci metto qualche pausa, e concludo con 19 passaggi effettuati, Juri 23 (ma in 4 ore), e Michele addirittura 29. Lui era quello del “che palle no non tiro neanche giù la bici dalla macchina che schifo di tempo ma chi me lo fa fare no basta sono stufo prima ancora di cominciare”. E mi ha dato 10 giri!!

Tempo di scoprire che la nazionale italiana (entrambe con la minuscola: 4 anni fa non avrei osato) ha portato a casa un misero pareggio con la Nuova Zelanda, mentre la gara sta per finire. Io concludo le ostilità un quarto d’ora prima, buttandomi nel fango come un cinghiale, prima di faccia poi di schiena. Poi gelidi attimi, una gelida e fangosissima doccia, rifugio sotto il tendone per il rituale giro di tortelli, appannaggio di chiunque abbia sfidato le intemperie.

Do una mano a smontare la tenda di Massimo, Omar e Juri, aiutato dal “Mike”. Siamo fradici e zozzi, ma da lì, e anche nel tepore artificiale della macchina al rientro, infangata più dentro che fuori, la mente ritorna sempre a quella catarsi estrema, distillata, genuina: prima quella discesa a vita e fiato perso, poi il battesimo del fango. Giù di faccia, come un bambino, poi mi giro di schiena e il rituale si ripete.

Cielo, voragine, e terra che mangio. Per vivere ancora.

N.B.: chiedo scusa a tutti per la lunga assenza, ma il 2011 è stato un anno avarissimo di soddisfazioni per la MTB e la bici in generale. Ma quando ti trovi impegolato in qualcosa di più grande di te (sto pianificando di andare a vivere all'estero), tutto il resto passa in secondo piano.

Ne approfitto per fare auguri sinceri di buon Natale e felice anno nuovo a tutti gli adepti del forum, nella segreta speranza che l'anno nuovo sia un po' meno avaro di risultati del 2011, sotto ogni punto di vista.
 

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