L'unicorno

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BlacK2 Baron

Biker tremendus
12/3/04
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Valle Maira
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Nessun uomo, biker che si rispetti, potrà dire di non posseder limiti. Così dicendo avrebbe infranto la legge dei comuni mortali ma soprattutto non avrebbe detto la verità.
C’è nel curriculum vitae di ciascun ciclista l’unicorno, la vetta che non si è mai riusciti a scalare, il percorso dove tutto è sempre andato male. E c’è inoltre un legame particolare tra l’uomo e quella terra che dura da quella sera in cui era arrivato a casa deluso di non aver finito il suo “dovere”.
Il giorno in cui questa barriera è oltrepassata se ne forma un’altra. E, carissimi, poter dire di aver spostato l’orizzonte visibile è la più grande liberazione del biker.
Tutto ciò che da casa mia si può scorgere a vista d’occhio lo conosco ormai, bosco per bosco. Oltre quelle montagne, sebbene gioco fuori casa, tengo l’altra metà dei miei ricordi. Sono sempre stato legato alla mia assurda convinzione che un percorso si può fare una volta sola, poi va cambiato, modificato, intensificato, naturalmente solo se la volta precedente è stato finito con orgoglio e divorato dalle 2,1. E quel maledetto versante a Sud lo ricordo bene.
Questo è quanto accadde tra la mia amata Scott e il mio primo vero unicorno, un’estate fa.

La mia sfida partiva da pochi chilometri dal fondo valle e finiva dove, due vallate più in là, la vetta terminava con la Croce. Stava diventando un’ossessione, c’era qualcosa di diverso, c’erano probabilmente le altre sei volte in cui avevo girato la bici e per volontà mia o di terzi (bici compresa) ero tornato a casa. Non era più un rapporto con il mio corpo e la mia bici ma una vecchia storia con la Valle.
Tutto finì quel giorno di luglio dell’anno più caldo che ricorderemo.
I miei atti scaramantici di lavare la bici già prima della partenza -con la piena convinzione di doverla rilavare alla fine del viaggio-, di preparare le due borracce all’ultimo e di pesarmi li avevo fatti. Unica differenza stranissima per Scottish, che sono io, era quella di svegliarmi all’alba -pigro che ero e che sono. Ma se certi giorni non lo fai volentieri perché ti aspetterà una giornata di lavoro, quel giorno la fatica era accettabile.
Uscito sulla mia strada ho un chilometro rettilineo sterrato; da qui tutte le mie salite hanno inizio, si inizia a sentire le gambe, perfezionare i freni -che erano stati regolati per due ore- e vedere come sotto il sole d’estate basti un piccolo tratto per iniziare a sudare.
Poi inizia l’asfalto, sono dodici chilometri, di salita: l’unica cosa che qui personalmente riesco a fare è osservare, chino, la noia delle gomme. Ma l’idea di andare in macchina fin sotto il sentiero non mi ha mai affascinato.
Finalmente inizia la terra secca. Quel pezzo è in grado di mutare la forza di volontà di una persona in una voglia estrema di cambiar percorso. Questo è in realtà il pezzo più duro, dal lato fisico: sono tornanti in mezzo ai prati, dove l’aderenza della mia front è decisamente precaria. 15-16 chilometri.
Fu il tratto peggiore: i litri di sudore dappertutto non mi preoccupavano. Era la condizione psicologica che mi devastava. Pensavo che ero ormai obbligato a finire quel tratto, sapevo quanto fosse lungo, ero solo -volontariamente- e troppe volte avevo abbandonato tutto.
Ogni tratto vi sembrerà di averlo già fatto pochi tornanti prima, alla fine il mio Suunto parlava di 2h15. Due cose mi rassicuravano: erano ancora solo le 11, avevo tempo, ma soprattutto la mtb cantava come nelle sue giornate migliori: questa è per il proprietario della bike una delle soddisfazioni più belle.
Quando si finisce la strada si è in vetta, da qui in poi vi saranno altre due cime e altrettante creste. Per risparmiare fatiche bisogna cercare di rimane in alto. Questo è il tratto libero: non c’è una via precisa, solo un punto d’arrivo. All’inizio mi obbligava però a passare nei prati, sotto il sole. Si pedala in fretta, cercando un rapporto che non ci faccia perdere aderenza e sperando di quel sospirato angolo d’ombra.
Ed è ecco l’ennesimo sentiero, ma stavolta è diverso. Stanco ed affaticato, mi sembrò che le fatiche fossero finite. Sembra incredibile che in punta alle montagne vi possa essere un tratto estremamente pianeggiante per qualche chilometro. Non è discesa, ma la bici sembrerà sempre andare da sola. Lì il panorama distrugge gli occhi tant’è bello ed infinito. Le cime che si vedono sembrano non finire, e nonostante quell’anno non ci fossero più i colori della neve, le emozioni erano tante. Queste sono le mie montagne. Cosa può pensare un ciclista forestiero di fronte ad un panorama del genere? Semplicemente di essere un po’ pazzo, estremamente fortunato e libero.
L’atmosfera cambia quando si entra nel bosco, cala la temperatura -meno male- aumenta la durezza. Un biker sa cosa significhi percorrere in salita un bosco, su terreni argillosi. E lì dentro vi ho trovato il pezzo più faticoso. La bici qui è solo un peso. Inizia il “cumbal”, un avvallamento percorso da un torrente e pietre a ancora pietre, dove solo gatti selvatici e serpenti riescono a viverci. Si è obbligati ad attraversarlo e per di più va percorso il salita, con la bici sulle spalle. Mi sembrò la fine ma sapevo che una volta superato sarei stato a posto. Non ero mai arrivato fino a quel punto in bici. Fu dura. In quei momenti non puoi pensare a niente se non a quello che stai facendo. Penso che sia stato lungo 70-80 metri. Riuscii ad uscirci con solo un taglio sul braccio -un maledetto ramo- e una scarpetta piena d’acqua. Ero contento. Forse anche meno stanco di prima, perché la tensione era calata. Da lì non sarei più potuto scendere -e non avrei più voluto- ed ero obbligato ad arrivare alla Croce per poi scendere dall’altra. I trialisti mi avevano detto che con le loro moto qui prendevano sentiero ma non lo trovai subito. Dovetti percorrere un pezzo in metta ad un pascolo, ma per fortuna la pendenza ormai era minima, poi lo trovai. Era quasi a filo della cresta, naturalmente tutto rettilineo, largo meno di un metro ed eroso dall’acqua.
Quando giunsi poco sotto la Cima fui sorpreso, forse un po’ umiliato, nel vedere altri due ciclisti; quando, però, chiesi loro che percorso avevano fatto, il mio cuore si risollevò. Erano arrivati in macchina tre paesi sopra il mio e avevano fatto il sentiero che io avrei fatto per scendere: decisamente più breve e meno ripido (tra l’altro anche all’ombra). Non erano di queste parti e si erano fermati in quel punto, poi sarebbero ridiscesi. Riuscii a convincerli che si poteva ancora salire, fino alla Croce, rassicurandoli che molte moto vi andavano e che io ero già salito (!?!). Andare su con altri bikers che non conosci è un’ottima soluzione: sono spinti dall’orgoglio e non rinuncerebbero mai. Gli avevo spiegato che giro avevo fatto, quanto ero stanco e anche accennato che all’unicorno ma lo capirono presto venendo su con me. La mia fatica rispetto alla loro era maggiore e per me non è mai stato facile trattenere le smorfie, figuratevi in quei momenti. Comunque l’andatura la facevo io. Era gente esperta, con mtb da freeride (ecco perché erano dovuti arrivare in macchina) e avevano il vizio di fermarsi a guardare il paesaggio -o era una scusa per fermarsi a riposare?-. Ma la Croce era lì. Potevo finalmente buttarmi nell’erba, la poca che non era bruciata dal sole, e pensare che ce l’avevo fatta. Ce l’ho fatta! 5h20 di sola salita.
Una normalissima salita, sebbene eterna, si era trasformata nella mia mente in quel pallino che ti consuma finché non te lo sei tolto. Dovevo dimostrare a me stesso di essere in forma e far vedere al “mondo” la mia determinazione. E ogni volta che salivo sulla mia mtb nessun percorso mi soddisfaceva, perché non era quello.
L’unicorno è qualcosa di unico che non ti scorderai mai, ne avrai sempre uno, e con ciascuno avrai un rapporto diverso. Una salita di potrà far dannare per l’eterno ma non ne avrà mai colpa, sei tu che ti sei comprato la bici e che in quella bella giornata sei partito sapendo che saresti stato meglio sul divano. E proprio in questa scelta sta la tua soddisfazione, il fatto di non darti tregua, di seguire l’istinto, di arrabbiarsi da bestia con montagne inanimate. Di aver cercato il punto limite, di averlo sfidato, forse anche superato. Seguendo la regola che prima di ogni discesa c’è una buona salita. Spingete sempre, ragazzi, godete alla sofferenza delle vostre gambe, al vostro respiro affannato e ai litri di sudore. Ma per favore non chiudetevi in un circuito, da ripetere giri su giri, non bloccate la vostra libertà, perché la libertà è il poter vedere dall’alto quello che prima guardavate dal basso. E io vi assicuro che quel giorno mi sentivo libero, lassù.
 

BlacK2 Baron

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ugo ha scritto:
Se vinci cosa ci fai con la JrT :shock:
Salute :-o :-o

Fai questa domanda perchè pensi che veramente un amante dell'xc non l'apprezzi. Una Marzocchi del genere mi piacerebbe appenderla in camera ma non penso di specarla in quel modo. Potrebbe essere il primo pezzo per farmi un nuova mtb (come pezzo iniziale non c'è male), magari con un telaio Rocky Mountain o Norco usato e un XT (passare al Saint per uno che ha sempre fatto XC è doloroso). Ciao :scassat:
 

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marco ha scritto:
e adesso dicci dov'è questo itinerario! :8):

Uao il director che mi scrive, penso che salverò questa pag.

So che conosce la val maira perchè è un pezzo del mitico itinerario Ventimiglia-Monviso di cui si è tanto discusso un mese fa (spettacolare, mi piacerebbe farla tutta ma per ora ho fatto ancora solo Chialvetta-Sampeyre-Saluzzo (l'avevo già fatta prima che pubblicaste l'irtinerario ma è ben simile)). Comunque per quanto riguarda il percorso.

Dronero - Tetti - Cartignano - San Damiano macra - Messore- S.Margherita -Assarti

Bye
 

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