Le mie terre (come ti racconto la Winter Cup)

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FRWalter

Biker urlandum
17/6/08
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Sulle nuvole
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Due mesi per maturarlo, meno di un'ora per scriverlo.

Ieri è stata l’ultima puntata. Fine, l’ultimo episodio di un ciclo di nove gare. Come da tradizione, il campionato "winter cup" UDACE, nella provincia di Pavia, si conclude il giorno dell’Immacolata. Sembra una cosetta da niente: due mesi di gare, una ogni Domenica (più quella dell’8 Dicembre), una banalità.
Ci ho pensato spesso, a scrivere un racconto, ma prima della fine niente, tante idee, tutte allo stato gassoso, a turbinare nella mente come nubi che si addensano prima di un temporale. Come te le racconto otto settimane di gare senza che il racconto diventi una fiera del banale, senza che la piega presa sia quella dello zero assoluto della noia, il punto-di-non-ritorno della rottura di palle più assoluta? Non lo so, però ci provo.

Parte tutto dalla mattina di Giovedì 9 Dicembre. Sembrerebbe una tortura, lavare una bici infangatissima, asciugarla, dare il lubrificante sulla catena, controllare la pressione delle sospensioni e delle gomme, ma è un’occasione per riflettere. Ogni segno lasciato da una caduta o da una sassata, sono lì a farti monito di due cose: numero uno, se la vuoi riportare a casa sempre in condizioni da salone, non è il tuo sport. Numero due: niente dura in eterno, vale la pena di consumare e consumarsi. Chi lo sa, quando questo privilegio finirà? Il tempo non si innamora due volte di uno stesso uomo, recita Vecchioni, e per quanto vorrei essere il Peter Pan di turno, mi rendo dolorosamente conto di quanto cazzo ha ragione.

Il tempo è un oste che non si fa sfuggire un centesimo, il conto lo paghi, tutto. Vengono concesse dilazioni, più o meno lunghe, ma non si recede dal mutuo, nessuna penale è considerata. E il mio promemoria è la caviglia destra. Me la sono martoriata prima con gli sci, piantandomi in un canale roccioso tradito dalla neve fresca, poi con lo snowboard, piegando le ginocchia mentre andavo a circa 50 all’ora, con conseguente posizione yoga dell’”imbecille cadente in malo modo”, replicata più e più volte a ogni capitombolo. E infine a Settembre, una maledetta buca mentre ero a correre a piedi. Una fitta improvvisa, sono finito per terra come un sacco di patate, e sono più di due mesi che la mia caviglia non è più lei. E’ debole, cambia di umore facilmente, fa male.

Ho ripensato intensamente alla mia winter cup, sono tornato con la mente al pomeriggio del 10 Ottobre. Mi manca l’allenamento, mi manca il fiato, devo perdere almeno una decina di kg, ma non passerò troppo tempo a piangermi addosso.

Uno dice: d’accordo, parto blando e poi allungo, ma come fai, con una cinquantina di avvoltoi che piombano sul tracciato come su di una carcassa nel deserto? Chiaro: ti unisci allo stormo, anche se il fiato che hai è come un fuoco di paglia che esala l’ultima fiammella alla prima salitella. Pensavo, tra me e me, e l’ho pensato spesso: “sono a casa qui, sono le mie terre, i campi arati, gli argini, i crinalini dove tante volte ho fatto il cretino con la bici da bambino. Scene già viste: dov’è il problema?!?”. Il problema di fondo è che non sono terre solo mie, ma in comproprietà con tanti altri che pedalano. Forte, fin troppo, alcuni da quasi una vita. C’è un terreno che è il terzo freno: pensavo spesso a una foratura, o al cambio bloccato su un rapporto sfavorevole, ma quando mai: sono solo i miei vizi enogastronomici che si prendono il dazio, senza chiedermi se son d’accordo, è la mosceria che mi prende quando il blocco sull’allungo è più psicologico che fisico, ma è un prezzo che pago volentieri.
Le mie terre, dicevamo, e i miei limiti: il peggiore, maledetto, di non sapermi gestire da solo. Troppo bello avere davanti qualcuno che ti fa l’andatura, parto veloce, mi sgonfio, e resto solo. Tocca provarci, spremersi come un limone dove è richiesto, e fare la cazzata di spremersi comunque dove potresti risparmiare un po’. Me la ricordavo molto più facile.

Domando alle mie terre, e loro mi rispondono: eccolo qua, il frescone, che da ragazzo ne aveva un bel po’. Poi un giorno smette, non si fa vivo per dieci anni, e in quattro e quattr’otto pensa di riprendersi tutto, alle stesse condizioni di dieci anni prima? In fila bello, dietro a quegli altri cinquanta.
Il fiato mi serve da buttare sui pedali, protestare non serve, l’altra parte ha ragione, non ha le orecchie per sentirmi. Un respiro profondo, mentre lo scrivo, alla stessa maniera in cui affronto quelle salite infangate, dove la ruota scivola mangiandosi il poco mordente che rimane: mi sta bene, me la sono cercata.

I miei sogni di gloria si rimescolano al volo e sono meno piccanti, stemperati sotto una coltre di neve, e infine sciolti nel fango*, ma è una maledizione estremamente appagante: siamo nella tana del freddo umido, della nebbia, del clima capriccioso e dell’odiatissimo vento. Non ci sono solo le pietraie della Liguria che ti tengono fresco a Luglio mentre scendi da un terrazzamento all’altro col manubrio tra i denti, neanche i falsipiani del Trentino che sembrano autostrade: due pedalate, e incredulo leggi 50 all’ora sul contachilometri. Qua leggi 13, sul contachilometri, con la stessa fatica, e il freddo che non ti attanaglia, ma attua un’altra strategia: ti risparmia il corpo, che sembra ardere dentro a quelle sorta di mute da sub fatte apposta per sudarci dentro, e ti colpisce mani e piedi come una frustata, alla stessa maniera in cui colpisce la faccia, nuda e indifesa. Pensi che guanti e scarpini debbano servire a qualcosa, e la loro utilità è presto detta: uniformare la tortura. Fare in modo che il freddo e il fango che ti schizza addosso, siano l’ultimo dei problemi, mentre i problemi seri sono le volte che si pianta la catena a causa delle zolle di fango, il magnetismo degli alberi che sembrano attrarre irrimediabilmente il complesso uomo-bici alla fine dei tratti più sconnessi, quelle mezze salite di erba bagnata che sono, come già detto, il terzo freno. E quelle discese, tante volte rese dalla pioggia delle piccole frane. Rischiare: sapere se sei ancora un ciclista, o qualcosa di più simile a una pietra, a una zolla di fango che rotola di qua e di là in balia di una fisica dispettosa.

Otto domeniche e un Mercoledì. Inutile domandare dove ho trovato la forza: l’ho cercata nelle facce esauste e sorridenti dei compagni di avventura e degli spettatori infreddoliti, nel tepore del teatro di Dorno, durante la premiazione, in tutte le volte che ho pulito la macchina, ridotta in uno stato pietoso.
E nelle mie terre, che ho riportato a casa a rate: attaccate ai vestiti, alla bici, ai sedili della macchina, cristallizzate dal freddo, come un ricordo nella mente. Per fare in modo che tutta quella nebulosa di pensieri che mi prende quando ho finito di lavare la bici e sto dando il lubrificante alla catena, siano solo pensieri positivi, e che l’oste, in un impeto di generosità, ai quasi dieci anni che ho perso, magari ci tiri una riga sopra.

Note dell'autore:

1) Vogliate perdonarmi il francesismo (quando ho scritto: quanto "cazzo" ha ragione), ma non c'è a mio parere un altro termine che renda la giusta enfasi a una verità così profonda e inappellabile;

2) IN ROSSO: non è mia, è di un gruppo folk (che mi auguro noto ai più), i Modena City Ramblers. La frase corretta sarebbe: "l'inverno ha coperto i pensieri/e poi l'estate/li ha sciolti nel fango". La trovate in questa meraviglia:

YouTube - Modena City Ramblers - Lettera dal fronte

Ciao a tutti!! :cucù:
 

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