Aracnofobia

  • Siete di quelli che, quando comincia a fare freddo, mettono la bici in garage e vanno in letargo, sdivanandosi fino alla primavera? Quest’anno avrete un motivo in più per tenervi in forma, e cioè la nostra prima Winter Cup, che prende il via il 15 novembre 2024 e si conclude il 15 marzo 2025.
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giusca

Biker novus
1/9/11
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ARACNOFOBIA

L'inizio
Eh si! Quella volta voleva proprio fare un giro molto lungo. Quelli che lui pomposamente soleva chiamare tra sé e sé “giri di ampio respiro”. Non escludeva ovviamente un tratto considerevole di strada asfaltata, ma immaginava, nella parte centrale del trail, di attraversare una zona assai impervia e per certi versi poco conosciuta da molti. Voleva partire direttamente da casa, evitando la scocciatura di prendere la macchina e caricare in essa la bici per raggiungere un “comodo” punto di partenza. Poi voleva fare chilometri, per riprendere gamba in vista degli impegni futuri. Alle ultime uscite aveva d’altronde tristemente constatato come una sosta di più di un mese era estremamente pregiudizievole per il suo allenamento. Una volta uscito dalla parte più prettamente off road, si sarebbe ritrovato a Pian Garzeto, non molto lontano da Casa Migliorini, sulla “Quattro corsie”. Da li, per strade secondarie, quando sterrate quando sommariamente asfaltate, si sarebbe ritrovato a Marrucheti, dove era certo di trovare l’acqua, vicino alla chiesa, la dove a fine estate si ritrovava con alcuni amici ad una nota Sagra gastronomica locale. Per i dolci saliscendi che da Marrucheti riportano ad Istia d’Ombrone, strada bella e poco trafficata, avrebbe rapidamente raggiunto l’arteria principale che l’avrebbe poi ricondotto a casa. Non escludeva una divagazione alla zona dell’Osservatorio. Giusto per allungare. Giusto per evitare un po’ di traffico. Aveva preventivato una sessantina di chilometri, studiando la cartografia e predisponendo una traccia GPS di massima.
Ma la parte centrale del trail era la cosa più eccitante del progetto.
Voleva attraversare la Scagliata. Asfalto, Scagliata, asfalto.
La Scagliata. Quante volta l’aveva vista senza conoscerne il nome. Quante volte facendo la Grosseto Siena, si era volto a destra incuriosito, interrogandosi affascinato per quei colli tanto vicini quanto apparentemente impenetrabili, ostici, isolati. In una parola selvaggi. In questo stava la fascinazione del luogo. Di qua Batignano, con suoi i costrutti medievali, gli ordinati oliveti, i Poderi e i cavalli. Di la il niente, o meglio solo il verde intenso, ubertoso, ma anche oscuro e impenetrabile.
“Ma come si chiama quella zona a destra della quattro corsie all’altezza di Batignano?” Chiese una volta a Vincenzo, lo storico biker maremmano, noto per conoscere palmo a palmo il territorio se percorribile con una mountain bike. “Ma è la Scagliata”, rispose seriamente e quasi deluso che non conoscesse il nome di quel luogo. “Ci abbiamo organizzato anche un raduno”, continuò e li si fece serio. “E’ un po’ che non ci torniamo, i sentieri si chiudono facilmente”, chiosò sbrigativamente. Questa informazione, non smorzò la sua curiosità, anzi sortì l’effetto opposto. Tant’è che chiese immediatamente se fosse possibile attraversarla da nord a sud, per ritrovarsi a Casa Migliorini. “No, è impossibile, nessuno lo ha mai fatto” Rispose Vincenzo, laconicamente, mal celando un leggero fastidio, quasi volesse uscire subito dall’argomento. Così fece, cambiando immediatamente discorso, rivolgendosi verso la “Stolzi” (Laura, la giovane e nuova “adepta” dei single) e “sparando” come al suo solito alcune simpatiche battute, su come il ”Puro” (al secolo Marco altro storico biker) procedeva, forbici da giardiniere alla mano, a ripulire i single track di Montebottigli.
Non lo convinse.
Allora chiese ad altri informazioni. Ma tutti dimostrarono, schivamente, di saperne poco. Alcuni si inventarono indicazioni di strade e percorrenze che a ben guardare nulla avevano a che vedere con la sua idea. Quasi volessero, più o meno inconsciamente, farlo deviare dai suoi intendimenti. Certo questa ritrosia dimostrata da tutti, creava una leggera inquietudine. “Ma diamine, possibile sia qualcosa di irrealizzabile?” Pensava tra se e se, mentre con eccitazione consultava la cartografia e le foto aeree di Google Earth.
Effettivamente le sue speranze non erano totalmente infondate, dato che quello che traeva dalle sue consultazioni suggeriva, la presenza di sentieri, strade forestali, radure e vecchie piazzole di carbonai. Segni di presenza umana ce n’erano in quel verde impenetrabile, fatto di profondi fossi e di apparenti brusche successioni e creste, talvolta digradanti in complesse ondulazioni collinari, dal disegno incerto.
Ripercorreva oramai a memoria, con ossessione con gli occhi puntati sullo schermo del computer, o sulle carte geografiche, quei luoghi, anche fino a tarda notte. Sentieri e strade collegavano con una teoria complessa e non sempre evidente, creste, fosse e poggi: I Roghiccioni, Monte Rosaio, Fosso al Ragno, Poggio Montaio e Poggio al Lupo, Cancello dei Poggi, e poi infine Fosso dei Puntoni e Pian Garzeto. Erano evidenti i segni del passaggio umano. Almeno su carte e foto aeree. Tutto ciò lo rincuorava, alimentando, con ansia, l’idea di quel viaggio, di quel progetto quasi divenuto una inspiegabile necessità, e per il quale, le notti, tardava ad addormentarsi, per quanto il pensiero ne fosse monopolizzato, per quanto temeva di perdere quel logico ma labile susseguirsi di punti, incroci tracce e luoghi, del percorso che aveva a lungo studiato e immaginato.
Solo una zona risultava non perfettamente cartografata. O meglio, diciamo così, trovava una porzione di territorio sommariamente rappresentata. Quasi che i topografi avessero voluto rilevare quote ed elementi del suolo, con fretta e furia, convinti che il più fosse utilmente già stato fatto altrove. Le foto aree per contro, evidenziavano, grosso modo in quella zona, un verde più scuro, intenso, non interpretabile in termini di certa qualità di vegetazione; in apparenza senza strade o sentieri, senza vie di entrata o di uscita. “Sicuramente è una zona più depressa”. Pensò. Anche se era evidente la compresenza di un poggio pronunciato nelle immediate vicinanze. Non riusciva a valutarne l'estensione o la pendenza o la precisa morfologia e neanche ad associare con precisione il toponimo rilevabile dalle carte. In alcune infatti, quella zona era, insieme ad altre, indistintamente denominata Poggio al Lupo. In altre sembrava essere rilevabile il nome di Fosso al Lupo. In una carta più vecchia, e quindi necessariamente più approssimata, sembrava che alla zona fosse attribuito il toponimo di Fosso al Ragno. “Strano” pensò, ricordandosi immediatamente di una coppia di fratelli agricoltori e allevatori che vivevano con le mogli, pecore e trattori, alle “Ragnaie” di Scansano.
Valutò superficialmente questa “buco” cartografico, convinto com’era che col suo GPS avrebbe con facilità ritrovato il collegamento di sentieri e strade che prima e dopo erano rilevabili. Si sarebbe trattato tutt’al più, come in altre circostanze, di sgusciare e strisciare tra eriche marruche e lecci, concluse sommariamente. Era o non era, in fondo, un buon (anzi ottimo) conoscitore del suo Garmin? Quante volte gli altri erano ricorsi alle sue indicazioni per risolvere quelli che lui oramai si era abituato a considerare “problemini”, e che invece facevano vacillare, di fronte ai tasti del GPS, quei poveri e spazientiti colleghi di gite?
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Lo svolgimento
Partì. In solitaria. Evitò artatamente di comunicare o condividere il progetto con altri, bramoso com’era di farsi bello, con quella piccola gloria, agli occhi dei bikers locali.
Nel primo pomeriggio di una bella giornata di settembre, sommariamente illustrò il percorso alla moglie, e partì. Non prima ovviamente di avere subito i rimbrotti di lei, che come al solito lo esortava a stare attento, a portare accesi non uno ma due cellulari perché non era sicuro uscire da soli, a non fare tardi che avevano un impegno a cena…”Fai un giro corto”… e via dicendo.
La salutò sospirando. Ma poco dopo ritrovò l’eccitazione del viaggio.
Dopo circa tre quarti d’ora, passando prima per la ciclabile parallela alla Senese e poi per il Commendone e Roselle, arrivò al frantoio di Batignano, dove svoltando a destra prese lo sconnesso sterrato che porta alla Scagliata. Trovò fango e pozzanghere, era piovuto da poco e rapidamente, oltrepassò la quattro corsie. Una piccola incertezza gli suggerì di rallentare. “A destra o sinistra” pensò. Un bivio. Se avesse sbagliato ora, tutto sarebbe stato pregiudicato. Se avesse imboccato la direzione sbagliata, il tempo residuo non gli avrebbe consentito di rimediare. “A destra” concluse giustamente e cominciò ad arrancare sullo sterrato infestato da Inule, evidentemente poco frequentato, che si inerpica tra le colline. Nel frattempo alcuni nuvoloni grigi e carichi di pioggia sopraggiunsero. Dopo pochi attimi di incertezza, la pioggia cominciò a scrosciare, rendendo il fondo sassoso immediatamente viscido ed infido. Fu costretto a fermarsi sotto una pianta. Pur nulla scoraggiato, quasi si fece beffe del temporale pensando a quanto è gustoso l’odore del terreno bagnato che si mescola con gli aromi che si propagano dalla macchia mediterranea surriscaldata ed umida. Quante volte aveva provato questa sensazione e quante volte l’aveva ricercata. Riprese a pedalare infreddolito ma presto si riscaldò. Il susseguirsi di salite e discese che il percorso proponeva lo costringevano a cambi di ritmo e di attenzione, per cercare il passaggio più facile sicuro e rapido. Era tutt’uno col suo mezzo. Confidava nel successo.
Proprio in momenti come questi, anche memore delle indicazioni dei ciclisti più anziani, e come se la mente gli avesse voluto ispirare una saggia moderazione, rallentò smorzando quella assoluta esaltazione. Richiamò allora alla sua mente, una lieve riflessione, quasi un leggero adombramento di quel fantastico pomeriggio. Non aveva forse sottovalutato quei piccoli accadimenti che nel corso di questa prima fase del giro si erano presentati? Furono segnali che non colse? Non intuì che quei piccoli eventi, quelle piccole rotture dell’ordine precostituito e a cui spesso non diamo significato, erano li ad aspettarlo, per indicare un altro disegno, un’altra percorrenza. Perché, al bivio, non andò a sinistra? Perché non arrestò la sua progressione col temporale? Forse a sinistra non avrebbe trovato un percorso di altrettanta soddisfazione? O forse non sapeva che col bagnato tutto peggiora, specie in discesa? Non colse i segnali perché troppo ambiziosamente pieno della sua idea, o perché provava per quella zona misteriosa, quel”buco” poco noto o ignorato o evitato, una attrazione fatale?
Ovviamente ben presto “incontrò” degli sgradevoli compagni di viaggio. Come il vento si placò, nuvole di tafani lo assalirono, ridestandolo da quelle quasi inutili divagazioni, annebbiandogli la vista e infastidendo la sua progressione. Nulla valse l’uso di un repellente abbondantemente spruzzato su tutte le parti scoperte del corpo, per altro bagnato dalla pioggia.
Giunto alla fine di una discesa, e dopo aver non poco patito per sassi smossi e per i solchi di erosione, affrontò una violenta salita. Subito il cuore schizzò a 160 battiti al minuto e decise di fare l’ultimo tratto a piedi. Non più lunga di una cinquantina di metri quella salita era contornata da una vegetazione fitta e regolare non solo ai lati ma anche nella parte superiore. Notò con sorpresa che foglie e fronde architettavano una sorta di galleria, delineando un varco scarsamente illuminato verso la zona successiva. L’aldiquà cominciò con un trivio. Ancora ansimante, propiziò ad interrogarsi sulla direzione da prendere. L’occhio scivolò verso il GPS, ma il responso non fu certo. D’altronde qui la traccia si faceva più incerta e quel famoso buco topografico presumibilmente si stava avvicinando. Ma a quel punto ogni direzione, pensò, sarebbe stata utile all’obiettivo. Era convinto di essere già entrato in una fase del viaggio, in cui anche commettendo un eventuale errore, il percorso lo avrebbe portato là, dove doveva andare.
Infastidito da questa incertezza, prese pian piano consapevolezza che finalmente i tafani lo avevano abbandonato. Si. Finalmente se ne era liberato. Era fradicio, ansimante, non certo del percorso. Ma era riuscito a sbarazzarsi almeno dei tafani. Il repellente alla lunga aveva funzionato. Così volle credere. Più tardi comprese le reali ragioni.
Imboccò a destra una discesa invitante. Alla sua sinistra si aprì improvvisamente un orrido fosso asciutto, scavato probabilmente da potenti e antiche acque torrenziali. Orlavano il fosso, che lo impressionò per la profondità che sviluppava, querce colonnari e lecci ombrosi, posti lì a vigilare forse da secoli. Non meno impressionante era il sottobosco: rovi straordinariamente assai sviluppati si protendevano verso di lui, quasi a cercare di pungerlo. Marruche insolitamente giganti e procombenti, lo costringevano a frequenti gimkane. Tutto sembrava amplificato. Tutto collaborava ad una immagine drammatica e sublime ad un tempo. La forza della natura, si opponeva anche alla penetrabile forza della luce solare. Perso in questi pensieri non si accorse quasi, che il viottolo largo che stava percorrendo si restringeva improvvisamente, imboccando un ingresso invaso dalla vegetazione erbacea e da arbusti di ogni sorta. Uno stretto canale gli consentiva la progressione.
Lì avvertì, molto più che per i tafani, un profondo disagio: decine di fili di ragno, tesi arditamente da una parte e l’atra del sentiero, impattarono su di lui con inaspettata violenza. Sul viso, sugli occhiali, tra le labbra, con una fastidiosa prepotenza, con un solleticare sgradevole, quelle trame invisibili ma molto resistenti, stesero su di lui una sorta di sudario impalpabile ed indesiderato. Fu costretto a fermarsi, per ripulirsi e grattarsi, Ma non fece a tempo a vedere che anche le mani e le dita erano quasi completamente avviluppate dalla trama sericea. Guardandosi meglio intorno, scorse penzolanti residui, quasi lanuginosi, sul manubrio, sul telaio, sul GPS. A fatica si ripulì e ripulì la bici.
Un improvviso guizzo istantaneo, attirò la sua attenzione a destra. Un rapido movimento non particolarmente rumoroso che lo costrinse ad un leggero sussulto. Si riparò dietro la bici e urlò sia per la paura sia per impaurire qualsiasi cosa sia stata. “Cinghiali” pensò, quando rinsavì. O forse caprioli. Quante volte li aveva incontrati. Ma stranamente non aveva avvertito quel tipico odore di selvatico con cui questi animali della macchia annunciano la loro presenza. Continuò a ripulirsi e riprese a pedalare.
Il percorso non offriva apparenti divagazioni o bivi. Fu costretto a mantenere quella direzione, dove fastidiosamente i fili sericei continuavano a tormentarlo, costringendolo ripetutamente a pulirsi il viso e a sputare, a grattarsi con ossessione gambe e braccia. Finalmente una svolta a destra. Un rettilineo nella macchia lo portò rapidamente in una piccola radura. Ansimante si fermò per bere e dare un’occhiata al GPS: allargando la visuale dello schermo dello strumento, si accorse che aveva percorso una sorta di grande cerchio, o forse meglio, una sorta di grande poligono irregolare, dal quale poi si era staccato il rettilineo che lo aveva di fatto portato al centro di quella bizzarra e inaspettata forma geometrica. Cominciava a farsi tardi e la luce calava. Con tutta fretta ripose la borraccia e dopo una rapida consultazione del GPS riprese un imbocco di sentiero di fronte a lui. Inutile dire che le fastidiose trame continuarono per tutto quel nuovo segmento, ad ostacolare la sua progressione. Le scarpe ad esempio oramai non erano più visibili nelle le loro forme e colori di sempre, avvolte come erano a simulare dei giganteschi bozzoli di insetti. Di tanto in tanto ebbe ancora la percezione di quel rapido movimento a pochi metri da lui. Ma non voleva soffermarsi. Oramai la tensione crescente lo sospingeva ad accelerare la fuoriuscita da quel tratto di macchia. All’improvviso, dopo una indescrivibile sensazione quasi lievemente dolorosa, istintivamente portò la mano destra al bicipite del braccio sinistro: con una rapida occhiata constatò la presenza di due tagli: molto prossimi tra loro, perfettamente identici nella lunghezza e nella profondità, si sviluppavano paralleli per circa una decina di centimetri. “Marruche” pensò. Un lieve torpore circondava la doppia ferita, dai cui lembi stranamente sgorgava poco sangue. Non si curò di disinfettare. Aveva troppa fretta di uscire.
Finalmente un nuovo rettilineo. Via per di lì a tutta velocità! Improvvisamente si aprì un’altra radura, dall’aspetto familiare. Pulì lo schermo del GPS dalle ragnatele, e allargando di nuovo la visuale, con sgomento si accorse di aver percorso un nuovo poligono a molti lati, simile al precedente ma più piccolo di questi ed in esso contenuto. Si ritrovava nel solito centro. Era affranto. Pensò che doveva rifocillarsi.
Mentre addentava il solito snack energetico, consultava con ansia il GPS, nella speranza di trovare una valida via di uscita. Controllò la ferita: quasi che i fili sericei arginassero l’emorragia, si era nel frattempo un po’ gonfiata, divenendo sempre più insensibile al tatto. Di tanto in tanto si guardava intorno, guardingo, con l’orecchio teso a captare il minimo fruscio. Si stupì per non sentire anche alla lontana, rumori familiari: il rombo di un motore, i fischi e le urla dei “canai” o l’abbaiare dei loro stessi cani, già per macchie in attesa dell’apertura della caccia. Sperava di udire qualcosa. Niente. Un silenzio assoluto. Solo il suo respiro.
Improvvisamente ricordò quanto detto da Vincenzo, ma soprattutto riaffiorarono in lui alcune sue parole che volutamente aveva rimosso: “Durante il raduno, i cacciatori amici di Patrizio ci indicarono il preciso percorso da affrontare, aprendoci i cancelli della riserva. E’ bene non avventurarsi da soli là”. Perché non avergli dato retta?
Un nuovo ed inaspettato fruscio lo lambì a destra. Raggelò ed ebbe la precisa sensazione di essere osservato. Gettò il resto dello snack, e rapidamente inforcò la bici e si infilò nell’ennesimo sentiero, che si dipartiva dalla radura. Col cuore in gola e il cardiofrequenzimetro costantemente sopra 160, affrontò un nuovo tratto di macchia con una foga tale, da renderlo totalmente insensibile agli oramai innumerevoli filamenti che avvolgevano ogni parte del suo corpo e della bicicletta. A stento si ripuliva gli occhiali, per avere una minima visuale, ma imparò ben presto, a deglutire quelle bave sericee mentre respirava e a respirarle mentre ansimava. Stremato imboccò un ennesimo rettilineo che nuovamente lo riportò ad una radura.
Con lo sguardo rivolto in basso e con stupore, arresto’ la ruota anteriore davanti al pezzo dello snack che non molto tempo prima aveva gettato.
Atterrito, quasi cercando una conferma, con mani tremanti pulì lo schermo del GPS e contò il terzo poligono iscritto ai precedenti. Era, per la terza volta, in quel centro. Per la terza volta in quello stesso punto. Da lì, intuì l’emanazione di un concentrico disegno perfetto, che sempre più precisamente disvelava la sua tragica logica.

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giusca

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L’epilogo
In preda ad una ansia inimmaginabile, cominciò a correre senza un senso preciso spingendo la bicicletta a mano, usandola quasi fosse un ariete medievale contro il muro di vegetazione che aveva davanti, quando, oramai quasi completamente imbozzolato nella trama sericea, scivolò al bordo di un fosso, di cui non si era accorto. Non era stato in grado di afferrare con la mano sinistra un arbusto lì vicino, che se preso saldamente avrebbe evitato la perdita di equilibrio. Quasi che la mano non volesse più rispondere con precisione a suoi comandi. Cadde bocconi, perdendo il controllo della bicicletta, che cadde anch’essa, scivolando incontrollatamente nel fosso, ove rapidamente ne raggiunse il fondo, con un clangore rimbombante. La perse. La perse per sempre. Quanto l’aveva voluta. Quanto l’aveva cercata. La perse in un fosso oscuro, dal fondo quasi non intuibile.
Il terrore, la stanchezza, non gli consentivano più reazioni efficaci e valide. Cominciò a scivolare giù, strisciando, su quelle sponde sempre più viscide, con studiata lentezza, quasi che una forza esterna controllasse ordinatamente quella discesa verso l’oscurità, come per dar tempo a tetri officianti, di perfezionare i necessari preparativi di un rito misterioso. Pur imprigionato nella tela, tentò con braccia e mani di afferrare quando una roccia, quando un arbusto, tentò di opporsi con poco convincimento, col corpo con l’addome, col petto ansimante e le gambe, a quel lento e tremendo sprofondare. Cercò anche di urlare, ma come capita spesso negli incubi, tanto più intenso fu lo sforzo della gola e del collo, tanto più tragico soffocato e vano, fu quello spasmodico articolarsi della bocca. La coscienza ancora vigile gli fece intuire una sorta di progressiva paralisi delle sue possibilità di movimento. Quasi che un veleno di stanchezza si stesse diffondendo rapidamente nel suo corpo impedendo tutto. Solo gli occhi potevano ancora muoversi ed avere piena capacità di percezione.
Lì comprese la reale fine dei tafani: centinaia o forse migliaia di corpicini brunastri e cangianti, avviluppati come lui nelle trame malefiche, roteavano penzolando da ramoscelli rinsecchiti, ornamenti macabri, che quasi a simulare una danza propiziatoria, lo accompagnavano verso la fine.
Giunse al fondo del buco.
Infreddolito,contornato dai tafani mummificati, si pose ormai in rassegnata attesa.
Un rapido pensiero terminale, lo riportò alla disperazione della moglie e dei suoi cari, alla frustrazione dei suoi amici.
Ebbe la consapevolezza che nessuno lo avrebbe mai ritrovato e che nessuno avrebbe mai saputo cosa aveva tentato di fare.
Percepì nelle immediate vicinanze ancora una volta quel sinistro fruscio, divenuto ora però meno frenetico.
I suoi occhi non realizzarono subito l’enorme mostruosità che gelidamente comparve quasi dal nulla.
Non ebbe tempo di razionalizzare con pienezza quella visione.
Un dolore lancinante trafisse il suo addome.
Istantaneamente i suoi visceri e i suoi pensieri vennero risucchiati.
 

leo62

Biker tremendus
3/6/08
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savignano s/r
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Lo sventurato non avrà per molto il dubbio di essere o meno aracnofobico.
p.s. bello, anche se per me che giro quasi sempre solo sarà un problema ora portarmi dietro pure l'automatica.
 

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